Roscio







Agamennone Bovi Campeggi







Teatro di Agamennone Bovi Campeggi





Bolognese




Commedia Romana in 5 atti e versi,

tipografia Giuseppe Borromei - editore


Bologna 1879





Rappresentata per la prima volta in Bologna, al Teatro Brunetti, dalla Compagnia Drammatica del Cav. Luigi Monti il dì 14 febbraio 1879.





Prefazione
Agamennone Bovi Campeggi
Il fine, che mi sono proposto, scrivendo questa commedia, lo dico aperto, mi par nobile e grande, imperocchè ebbi in mente di far conoscere agli abitatori della mia patria diletta un illustre Italiano, che primo, in tempi remotissimi, seppe, colla potenza del genio, e di un forte e perseverante volere, elevare a dignità di arte liberale il mestiere del comico, insino allora, più che tenuto a vile, spregiato, ed esercitato, però, solo dagli schiavi.
E dico ebbi in mente di far conoscere, perchè quasi nessuno dè miei concittadini sa chi sia stato Quinto Roscio, maestro ed amico di Cicerone, fulgida stella del teatro romano, onore di Roma e d'Italia. Peraltro, se al grande attore mancarono ammiratori nel nostro paese, dove siamo così spesso e vituperevolmente dimentichi delle nostre glorie maggiori, non gli fecero difetto altrove, sovra tutto in Germania, ed in Francia.
Roscio nacque l'anno 135 avanti Gesù Cristo, in una miserabile capanna di schiavi; e, siccome fu allevato in Lanuvio, vuolsi così, e forse a ragione, che vedesse la luce in tale città.
Quinto Roscio Gallo è l'enumerazione fedele e completa dè suoi nomi e prenomi: da essa ricavansi due cose, e cioè che Roscio deve essere stato schiavo di un qualche Quinto, -gli affrancati facean precedere il loro nome da quello del loro antico padrone, - e che il soprannome di Gallo venisse al nostro Attore dal padre, indubitamente di origine celtica. Una specie di prodigio illustrò la sua infanzia.
La sua nutrice, dormendo egli in culla, il vide, una notte, stretto all'improvviso fra le spire di un lungo serpente.
Spaventata levò ella alte grida, alle quali accorso il padre liberò agevolmente il bambino dall'incomodo abbraccio.
Rapportata la cosa agli Aùguri, questi vaticinarono che nulla sarebbe per riuscire più chiaro e più nobile di quel fanciullo.
Questo fatto, - che, per la gran fama acquistata poi da Roscio, meritò di esser celebrato in versi dal poeta Archia, e rappresentato a cesello sopra una lastra d'argento dall'immortale Prassitele, - fu ridotto da Cicerone al suo giusto valore facendo osservare che quei rettili erano sì comuni in Lanuvio, da introdursi famigliarmente persin nelle case.
Roscio sortito avea da natura bellezza e grazia singolari: di ciò fanno testimonianza i carmi, che desse ispirar seppero a Quinto Lutazio Catulo, uno dè più eminenti personaggi di quell'età famosa. Avea, tuttavia, un difetto piuttosto grave, quello di essere assai losco.
Nè meno era ammirabile per le squisite qualità dell'animo suo nobilissimo: il sommo oratore d'Arpino ce lo rappresenta per tutto come un uomo, che univa a rari talenti un merito ancora più raro, e cioè di essersi conservato virtuosissimo non ostante i pessimi esempi offertigli dai comici e dal teatro.
Come e dove fosse educato; da chi iniziato nell'arte drammatica, alla quale spesso, per amore di lucro, solevano i padroni addire gli schiavi più appariscenti e di più fine intelletto; quando affrancato e perchè, non si sa troppo bene.
Ciò, però, poco importa, imperocchè a noi basta il sapere che la sua educazione dovette essere perfetta, e che giovanissimo ancora rivendicasse la sua libertà.
Maestro di Cicerone, si venne fra què due grandi a una strana prova, vale a dire se riuscisse meglio l'oratore ad esprimere in diverse maniere un dato pensiero, o l'attore a dipingerlo in più modi, e più vivamente col solo sussidio della mimica.
La sua azione accoppiava al calore ed alla vita la convenienza e le grazie, cosa, che egli reputava essere la somma essenza dell'arte.
Riuscì valentissimo così nella tragedia, che nella commedia; e, quantunque la drammatica avesse già avuto illustratori in un Esopo, in un Pilade, in un Pubblio Siro, essa veniva, ciò non di meno, chiamata l'arte di Roscio, e un Roscio si appellava, a titolo d'onore, chiunque si fosse segnalato in qualsiasi altra arte o disciplina.
La sua scuola era frequentatissima; ma la squisitezza del gusto, e la sua vivacità naturale gli rendevano l'esercizio dell'ammaestramento sommamente penoso, perchè, come afferma Cicerone, quanto uno è di più svegliato e sottile ingegno, tanto più grave gli riesce l'ufficio di maestro, chè il vedere intese dagli altri con difficoltà le cose da lui subito e pienamente apprese gli è cagione di sdegno e dolore. Scrisse pure un libro, in cui paragonò la mimica coll'eloquenza, il quale ebbe il più lieto successo.
Amato, venerato anzi da tutti, non escluso il dittatore Silla, che gli donò l'anello d'oro, che avean diritto di portare solo i magistrati e i senatori, fu rattristato da una lite avuta con Caio Fannio Cherea, il quale volea, prepotentemente, appropriarsi tutto l'indennizzo da essi ottenuto dall'uccisore di un certo Panurgo, schiavo di Cherea, e allievo di Roscio.
L'amicizia e la gratitudine indussero Cicerone a difenderlo; e l'orazione pronunziata in suo favore è un'immortale monumento sacrato all'esimie virtù, e al sommo talento di Roscio, virtù e talento, onde seppe nobilitare, giova il ripeterlo, una professione dai Romani tenuta a vile, e spregiata, tuttochè amassero, e grandemente gli spettacoli.
Accumulò, poi, così ingenti ricchezze, che, se vogliamo credere a Plinio, egli ebbe una rendita annua corispondente a 115 mila lire nostrane, e, secondo Macrobio, non meno di mille denari, - 830 lire circa, - ogni rappresentazione, non compreso l'assegno dovuto alla sua Compagnia.
Negli ultimi anni di sua vita, peraltro, ricusò ogni compenso, e recitò pel solo amore dell'arte, di quell'arte, alla cui gloria consacrato avea tutto se stesso. Roscio fu anche il primo, che ardisse comparire senza maschera in teatro, ed il pubblico applaudì a tale innovazione. Egli morì assai vecchio, credesi l'anno 62 avanti Gesù Cristo, e il dolore, che cagionò la perdita di un uomo, che, a detta di Cicerone, era siffatto artista da essere reputato solo, fra tutti, degno di vedersi in sulla scena, e siffatto cittadino, che solo, fra tutti, si avea a giudicar degno di non accostarvisi, il dolore, dico, cagionato dalla sua perdita fu tale, che il principe dei romani oratori, ricordando il suo venerato maestro nell'orazione pro Archia, afferma non potervi essere animo così selvaggio, da non rammaricarsi per la morte di Roscio, il quale e per la sua bellezza, e per le sue rare virtù, e per la sua eccellenza nell'arte parea non avesse mai dovuto morire.
Tale apparisce Quinto Roscio Gallo nelle opere di Macrobio, di Plinio il Vecchio, di Valerio Massimo, di Quintiliano, di Cicerone, di Tito Livio, e negli scritti pazienti di benemeriti e dotti stranieri, come ognuno potrà vedere di per sè leggendo ciò, che di più importante ne dissero i primi ed i secondi, nelle note da me poste in fine al volume.
Tale mi sono studiato di presentarlo io in questo mio lavoro drammatico, conservando in esso tutta la verità storica, e il colorito del tempo nella sostanza degli avvenimenti descritti, e introducendovi solo, a fine di renderlo più interessante e più svariato, alcune poetiche invenzioni, ad esempio, gli amori di Galata, l'episodio di Lelia ecc., le quali non isvisano punto la natura del soggetto impreso a trattare.
In esso ho cercato pure di dare un'immagine viva e parlante dei tempi, in cui visse il nostro attore, e dei principali personaggi di quell'età, forse non gloriosa, ma sempre mirabile e grande. Quantunque altri mi abbia preceduto nella pubblicazione di lavori di simil fatta, posso, tuttavia, assicurare che questa commedia conta già molti anni di vita, e che, nel dettarla, non seguii le orme di alcuno.
Mi giova sperare che i signori capicomici, tenendo conto dell'amore, onde io presi ad illustrare una gloria paesana, che li riguarda sì da vicino, vorranno, se non altro per affetto all'arte loro nobilissima, dar luogo nei propri repertorii a questa commedia, che potrà avere molti difetti, ma che fu scritta con un fine altamente lodevole, quello di rendere onore al più grande degli attori dell'età antica, e, per esso, ai Rosci moderni.
E per finire, mentre son grato à miei concittadini per la festosa accoglienza, che fecero a questo mio nuovo lavoro, e sarò gratissimo ai critici educati e cortesi, i quali mi renderanno avvertito dei difetti, che sono in esso, userò, invece, il maggior disprezzo con chi avvilisce la stampa, facendola campo di villani insulti, e di fanciulleschi dispetti. Bologna, 24 marzo 1879.
Agamennone Bovi Campeggi
PERSONAGGI
della Commedia
ATTORI
della Compagnia Monti
ROSCIO, comico Cav. L. Monti
SILLA, dittatoreG. Pesaro
LELIA, patriziaE. Zerri Grassi
FULVIA, patriziaA. Conti
GALATA, schiava comicaG. Zoppelli
PANURGO, vecchio libertoF. Bertini
CLAUDIO, vecchio patrizio, oratoreV. Grassi
FLAVIO, patrizioV. Bissi
MANLIO, patrizioG. Tamberlani
EMILIANO, patrizioL. Zerri
PAPIRIO, senatoreA. Bertini
ATTILIO, comicoA. Tellini
LUCIO, comicoG. Arnous
Una patriziaE. Pesaro
Un messo atenieseT. Lechi
1.a Donna della SuburraG. Antuzzi
2.a Donna della SuburraC. Grammatica
Un messo degli EdiliD. Moneta
Un comicoA. Buffi
1.o PlebeoD. Beffa
2.o PlebeoV. Antuzzi


COMPARSE
Messi ateniesi, Patrizi, Guardie, Littori, Istrioni, Comici, Schiavi, Schiave, Popolo

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